
RACCONTI DALLA CITTADELLA - Chi passeggia oggi fra i bastioni e le caserme abbandonate in Cittadella, quasi mai
ha idea di quanto questo luogo sia stato vivo, pieno di storie da raccontare, di episodi curiosi, di vicende che sono specchio di come andarono le cose per esempio durante la Seconda Guerra Mondiale. Solamente
ricostruendo meticolosamente le testimonianze dei protagonisti è possibile far affiorare
una memoria che è fondamentale conservare con attenzione, perché chi non ha memoria del passato difficilmente può avere un futuro dinnanzi a sé.
Nel raccontare
la storia della Cittadella attraverso le voci dei protagosti che lì hanno vissuto, oggi incontriamo
Pietro Cesare Gamalero, pediatra in pensione, un fiume in piena di ricordi e aneddoti tutti da ascoltare.
Eccone qui alcuni, altri sono raccontati direttamente da lui nell'intervista video a fondo pagina. I testi sono frutto del lavoro di
Enrica Balza, volontaria Fai, che "insegue" con impagabile passione i militari che transitarono dalla fortezza per aggiuntere testimonianze alla memoria collettiva che questo luogo splendido rappresenta.
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Sono stato in Cittadella dal 1942 al 1943 - racconta Gamalero -
assegnato
all’Artiglieria Pesante d’Armata. La caserma di riferimento era
la Beleno; di fronte c’era la Giletti, ma era della Fanteria e noi non avevamo nessun contatto. Potevamo andarvi
solo per ritirare il pane, in una stanza a sinistra; non potevamo attraversare la piazza, eravamo controllati e saremmo finiti in punizione. Apparteneva all’Artiglieria anche la caserma con gli archi subito dietro alla Beleno. Me lo ricordo bene perché, per un certo periodo,
ho dormito proprio sopra gli archi “in quella finestra”, (l’ultima a destra). Lì eravamo pochi artiglieri; i locali erano adibiti soprattutto a comandi e infermeria.

In fondo al corridoio c’era l’armeria e io
facevo la guardia ai moschetti, ancora della Prima Guerra. La polveriera era in funzione, non c’erano cavalli e i cannoni più grossi dell’esercito erano i 145/39, arretrati rispetto a quelli dei nemici.
Ho dormito anche nei sotterranei, a sinistra della caserma Beleno dove ci sono le inferriate. Entravamo dalla porta all’angolo: faceva molto freddo, avevamo i letti a castello sistemati a labirinto e, qualche volta,
ne bruciavamo uno. Quando stava per nevicare rubavamo un tronco enorme, lo segavamo e lo bruciavamo nel camino. Non c’erano vetri alle finestre, così
ci coprivamo con tante coperte sorrette da due assi laterali, perché ci pesavano troppo addosso. Le coperte erano in consegna, quindi era comodo prenderle. Erano belle e qualcuno si era fatto il cappotto o le portava a casa, di nascosto ovviamente.
Dormire costituiva sempre un’avventura: scoppiava
l’allarme ”cimici”, era impossibile annientarle, si arrampicavano sul soffitto e poi ricadevano. Ricordo che al campo estivo di Rivanazzano, un sergente le bruciava in un contenitore di metallo, mentre in caserma metteva
ai piedi delle brande dei barattoli contenenti petrolio. Le pulci procuravano lo stesso fastidio, forse peggiore rispetto a quello delle cimici. A peggiorare la situazione c’erano
tanti topi che morsicavano anche in faccia, gli zigomi, il naso e le orecchie.
Sovrintendente al casermaggio era il Colonnello Assandro, una brava persona. Ci chiedeva di
fare la revisione del materiale, siccome mancava sempre qualcosa, tagliavamo in due parti le lenzuola e poi si eliminavano, così i conti tornavano. Il mio amico Chiappino faceva vedere i pezzi chiamandoli “lenzuola”, e si prese una sberla.
Eravamo pagati 2 lire al giorno e qualcuno non le spendeva per inviarle a casa. Spesso, chi non sapeva scrivere, mi chiedeva di compilare il vaglia. Durante la libera uscita serale era possibile
andare gratuitamente al cinema. Qualcuno passava dal fotografo con studio subito dopo il ponte, verso la stazione, per farsi fotografare in divisa.
Io ero fortunato:
andavo al ristorante “Il Grappolo”, cenavo e, nella camera del figlio del proprietario, mi toglievo la divisa, indossavo una tunica da meccanico e, in bicicletta, andavo a casa, a Castellazzo.
Al mattino rientravo, prima dell’adunata,
passando dalla porta d’Asti perché meno controllata. Non ero l’unico a passare dai campi,
le guardie ci scoprivano subito perché eravamo sporchi di erba.
Alla sera
recitavamo la preghiera ironica che sbeffeggiava Mussolini. La Cittadella era illuminata, i lampioni elettrici erano applicati alle caserme".